Dopo 76 anni da quel lontano 2 dicembre 1943, l’eredità scomoda delle bombe all’iprite.

di Matteo d’Ingeo –liberatorio.altervista.org

Il bombardamento del porto di Bari del 2 dicembre 1943 non è mai stato oggetto di una particolare attenzione storiografica; solo nei primi anni settanta, Glenn B. Infield, un ex maggiore dell’ U.S Air Force, nel suo saggio “Disaster at Bari”, (tradotto in italiano da Vito ManzariAdda Editore 1977, e di recente ristampato con un saggio introduttivo di Giorgio Assennato e Vito Antonio Leuzzi) fornì una originale ricostruzione basata su fonti militari e su un gran numero di interviste di sopravvissuti e testimoni.
Quel giorno il porto di Bari era gremito da quasi una quarantina di navi e alcune di queste custodivano un segreto militare.
La nave americana John Harvey, appena arrivata dalle banchine del “Curtis Bay Depot” di Baltimora ed ancorata nei pressi del molo foraneo, aveva la stiva ancora piena di “bombe all’iprite”. I giorni successivi sarebbero state avviate a deposito nei pressi dei principali aeroporti pugliesi. Ciascuna bomba, lunga quasi 120 cm e del diametro di 20 cm conteneva circa 30 kg. di iprite, un gas tossico e vescicante, dal caratteristico odore di aglio. Con otto bombe si poteva contaminare completamente oltre un ettaro di terreno. Gli effetti dell’iprite, usata per la prima volta dai Tedeschi, durante la prima guerra mondiale, a Ypres (da cui il nome) nel Belgio, non sono immediati ma si fanno sentire dopo qualche tempo dalla contaminazione.
Solo pochi uomini a bordo della Harvey conoscevano il contenuto di quel carico, coperto dal più assoluto segreto, che sarebbe stato scaricato l’indomani.
Ma quelle bombe non furono mai scaricate perché alle 19.30 del 2 dicembre 1943 un centinaio circa di bombardieri della Lutwaffe tedesca attaccò il porto di Bari dove erano concentrate le navi alleate, tra cui la John Harvey. L’incursione, preparata minuziosamente ebbe effetti devastanti. Diciassette navi affondate, otto gravemente danneggiate, il porto distrutto, fortissime perdite tra il personale militare alleato e civili.

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Il bombardamento di Bari fu definito dal Generale Eisenhower la sconfitta più pesante dopo quella di Pearl Harbor; tuttavia per una discutibile censura imposta a suo tempo da Winston Churchill (che non voleva si sapesse che sulle navi di Sua Maestà vi erano gli aggressivi chimici da anni posti al bando dal consesso delle Nazioni), è stato a lungo ignorato sia dalla stampa dell’epoca, sia dagli storici. Solo recentemente le conseguenze di lungo periodo di quell’episodio si sono imposte all’attenzione della ricerca storica e medico-scientifica.
Secondo Glenn B. Infeld, il primo ministro Chuchill dispose che non fosse adoperata la parola iprite nei documenti che riguardavano il disastro di Bari. Le ustioni furono classificate per causa N.Y.D. – not yet identified – non ancora identificata.
Tutte le informazioni sulla vicenda, sulle navi e sul loro carico, dovevano rimanere un segreto di stato.
Le navi americane avevano nelle stive contenitori e bombe all’iprite messi fuori legge dalla convenzione di Ginevra del 1925.
Stime precise dei morti non ve ne sono, tra civili e militari certamente sfiorarono il migliaio. Oltre ai morti per le bombe ed i crolli, tra i quali circa 250 civili baresi, vi furono oltre 800 soldati ricoverati con ustioni o ferite.

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Dei 617 intossicati da iprite, 84 morirono in Bari. Si ritiene che molti altri siano morti in altri ospedali, sia italiani, sia del Nordafrica, sia dell’America, nei quali furono trasportati. Anche alcuni sanitari ebbero irritazioni agli occhi e lievi ustioni.
Quando il piroscafo John Harvey, con le stive cariche di bombe all’iprite venne centrato, parte del carico esplose e il micidiale contenuto si riversò nelle acque del porto, dove i naufraghi degli altri mercantili cercavano scampo.
Quando la nave si adagiò sul fondo del porto, una parte del terribile carico si disperse tra i rottami e sul fondale circostante. Almeno duemila bombe, furono stimate dai sommozzatori impiegati, subito dopo la fine della guerra, nella difficile operazione di bonifica. Duemila di questa sola nave.
Durante le operazioni di recupero degli ordigni si accertò che più navi Liberty statunitensi giunte nel porto di Bari avevano nelle stive armi a caricamento chimico e non solo d’iprite. Venne accertata la presenza di altri aggressivi chimici: acido clorosolforico, cloro picrina, cloruro di cianogeno. Una motivazione ufficiosa intenderebbe accreditare la tesi secondo cui gli americani avrebbero deciso il trasferimento di aggressivi chimici dagli Stati Uniti a Bari per essere pronti a rispondere ad un eventuale impiego di “gas” da parte dei tedeschi.
Le operazioni di bonifica del porto iniziarono nel 1947 e si protrassero per alcuni anni. Per dare un’idea della quantità immane dei vari ordigni recuperati, è sufficiente leggere i rapporti che settimanalmente venivano inviati ai diversi Ministeri interessati ed alla Prefettura. Da questi risulta che i soli ordigni chimici caricati ad iprite assommarono a ben 15.551 bombe d’aereo e 2.533 casse di munizioni (ovviamente il quantitativo di munizionamento ordinario recuperato fu di gran lunga superiore). Le operazioni consistevano nel recupero dei vari ordigni, dai fondali del porto, e nel loro caricamento su appositi zatteroni. Poi apposite ditte civili trasportavano al largo questi zatteroni e ne affondavano il carico su fondali del nord barese ed in particolare al largo di Torre Gavetone.
Oggi gli ordigni impigliati nelle reti dei nostri pescatori sono in realtà bombe all’iprite, o a caricamento chimico colate a picco con le navi statunitensi che le trasportavano per impiegarle sul fronte italiano.
Una realtà ben conosciuta dai pescatori e dagli addetti ai lavori, ma coperta da una certa “riservatezza”, salvo qualche sortita su pagine interne della stampa locale in presenza di incidenti. Episodi rari, subito dimenticati, soprattutto perché non è conveniente pubblicizzarli.
Si rischia di incappare in controlli, verifiche, procedure burocratiche, compromettendo la pesca e i suoi non marginali proventi.
Solo in presenza di un conflitto, di sgancio di bombe in mare, di una stampa disponibile, diventa utile denunciare gli inconvenienti per chiedere risarcimenti.
Le acque dell’Adriatico, segnatamente quelle a nord di Bari, nell’immediato dopoguerra, sono state teatro di scarichi enormi di ordigni bellici. I fondali sono costellati, per miglia e miglia quadrate, di estesi depositi che tutt’ora costituiscono un rischio. L’insidia maggiore, e i pescatori molfettesi e pugliesi ne sono perfettamente a conoscenza, è rappresentato dalle bombe all’iprite, al fosforo e da fusti metallici contenenti anch’essi iprite.

Il problema “del gas”, come viene chiamato dai pescatori di Molfetta,  ha inizio nel 1946.
Infatti, proprio in quell’anno, si deve ad un medico dell’Ospedale Civile di Molfetta, il dott. Adamo Mastrorilli, la registrazione dei primi casi di contaminazione quando la Puglia era ancora sotto l’occupazione anglo-americana. Nell’estate di quell’anno si verificò un incidente gravissimo con diverse vittime. L’intero equipaggio di un peschereccio, che aveva caricato a bordo una bomba chimica all’iprite, fu colpito dagli effetti letali del gas.

Nella relazione di Mastrorilli si legge: “Inizialmente non fu possibile capire quale fosse stata la causa di tale ustione collettiva, successivamente però dal comando alleato (con un rapporto del colonnello Alexander, ufficiale medico, inviato a Bari) all’uopo interessato, si seppe che si trattava di ustioni di “mustard gas” broncopolmonite massiva gettato in bombole con altri residuati bellici lungo le coste del basso Adriatico. Nei primi giorni di ricovero decedettero 5 soggetti più gravemente ustionati per sopravvenuta gravissima ribelle ad ogni terapia ”.
(A.Mastrorilli- Esiti a distanza di lesioni da vescicatori. –“Giornale della medicina militare”. 1958, n.4, pag.356)

Gli incidenti in questione, comunque, non sono esclusivi della marineria di Molfetta che pure conta la casistica più numerosa, ma di tali episodi si hanno notizie anche lungo la costa che va dal Barese al Golfo di Manfredonia.
Nel tempo, però è stata la marineria molfettese a pagare il tributo più alto in termini di casi d’intossicazione da iprite.

Infatti proprio l’area costiera tra Molfetta e Giovinazzo antistante l’ex impianto di “sconfezionamento ordigni Stacchini” (Torre Gavetone) diventò negli anni della bonifica del porto di Bari, una sorta di pattumiera di ordigni bellici a caricamento chimico. Quell’area oggi, georeferenziata,  è diventata ancora più ampia e comprende anche la zona antistante il porto e potrebbe raggiungere una superficie di oltre 100.000 mq.

Dunque, tra i pescatori che svolgevano la normale attività di pesca e quelli che parteciparono alle operazioni di bonifica cominciarono i casi di esposizione; e proprio alla marineria molfettese è rivolto uno studio condotto dai medici G. Assennato, D. Sivo, A. Ferrannini, P. Minafra (Università di Bari – Medicina del lavoro) con lo scopo di descrivere una particolare esposizione ad agenti tossici.

Lo studio è stato condotto su:
– 93 casi di esposizione relativi a marittimi ricoverati presso l’Ospedale Civile di Molfetta dal 1946 al 1954 come descritti da uno studio effettuato da Mastrorilli nel 1958; in tale studio erano compresi anche altri 9 casi di non marittimi;
– 135 casi di marittimi riconosciuti come intossicati dalle denunce di infortunio depositate presso gli archivi della ex Cassa Marittima Meridionale;
 11 osservazioni personali tra il 1994 ed il 1998.
Tutti i casi oggetto dello studio si riferiscono ad incidenti avvenuti durante la pesca.

L’esposizione  è avvenuta così come descritto nei verbali dei casi della Cassa Marittima, generalmente in tre modi:
a) al momento di issare le reti, i pescatori rinvenivano accidentalmente, assieme al pescato, ordigni al solfuro di etile biclorurato o parti di essi che, una volta in coperta, venivano maneggiati;
b) al momento di issare le reti, i pescatori si accorgevano della presenza di ordigni o parti di essi, che non venivano maneggiati poiché provvedevano a tagliare le reti stesse;
c) il contatto tra le reti e l’iprite avveniva sott’acqua; solo successivamente, dall’odore dell’iprite e/o dai sintomi da questa provocati, i pescatori si accorgevano di aver maneggiato reti contaminate.
Queste modalità sono state ricostruite in 117 infortuni di cui è stato possibile ricavare dai verbali la dinamica di infortunio.
Per due casi, invece, la modalità di contatto con il tossico è stata, rispettivamente, la cernita del pesce e l’indossare stivali contaminati.

Dal 1946 alla fine degli anni ’90 sono stati ricostruiti 239 casi di intossicazione da iprite.
I soggetti, tutti di sesso maschile e di professione pescatori, hanno una età media di 31 anni, compresa in un range tra 15 e 72 anni. Si tratta, in tutti i casi, di singole esposizioni, tranne che per un caso, espostosi due volte in tempi successivi.
Il picco massimo di incidenza calcolato per quinquenni si riferisce al periodo compreso tra il 1951 ed il 1955 con 67 casi. Sono questi gli anni che seguono allo smaltimento in mare dell’iprite, avvenuto negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale.
Successivamente l’incidenza è andata calando, rimanendo grosso modo stabile negli ultimi quindici anni.
La descrizione della sintomatologia cutanea e oculare degli esposti di Molfetta non è diversa dai quadri classici di esposizione al tossico già descritte nel corso della Prima Guerra Mondiale.

In tutti i casi, a distanza di 6-8 ore dall’esposizione, i marittimi avvertivano bruciore agli occhi con intensa lacrimazione e riferivano di notare il formarsi di zone eritematose cutanee, che evolvevano in bolle dolorose a contenuto sieroso o siero-ematico.
Alla visita in ospedale o presso la Cassa Marittima, gli intossicati avevano l’aspetto di ustionati da agenti chimici con diagnosi di ustioni chimiche di primo, secondo e terzo grado e quadri diversi di lesioni oculari.
Due casi su sette, tra i pescatori sottoposti a studio per evidenziare i possibili effetti a lungo termine della esposizione ad iprite, mostravano quadri radiografici compatibili con la patologia cronica polmonare da esposizione ad iprite.
Lo studio si conclude con la constatazione di fatto che il rischio di esposizione ad iprite è ancora presente tra i pescatori e la gravità delle lesioni, inoltre, non sembra decrescere con il trascorrere del tempo.
A tale proposito si sottolinea che gli effetti sulla cute dei pescatori sono sovrapponibili agli effetti provocati sulla cute dei bonificatori del porto di Bari (1946-1954).

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