A pochi giorni dal voto, giunge il dissequestro del porto commerciale

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Militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Bari ed appartenenti al Comando Provinciale del Corpo Forestale dello Stato di Bari, di Ravenna e Reparti dipendenti hanno eseguito nelle prime ore di questa mattina 2 ordinanze di custodia cautelare ai domiciliari emessi dal G.I.P. del Tribunale di Trani, su richiesta della Procura della Repubblica a quella sede, nei confronti dell’ex dirigente del settore Lavori Pubblici del Comune di Molfetta (BA) e di un imprenditore – rappresentante, in qualità di procuratore speciale, della Cooperativa Muratori & Cementisti C.M.C. con sede in Ravenna – entrambi responsabili di associazione per delinquere finalizzata alla truffa ai danni dello Stato, abuso d’ufficio, reati contro la fede pubblica, frode in pubbliche forniture, attentato alla sicurezza dei trasporti marittimi e reati ambientali.
Sequestrata l’area destinata al nuovo porto di Molfetta per un valore di 42 milioni di euro circa nonché la residua somma di finanziamento pubblico (pari a 33 milioni di euro) non ancora utilizzata dal Comune di Molfetta.
Le misure cautelari giungono al termine di un’indagine avviata nel 2010 dalla Procura della Repubblica di Trani sulla gestione delle procedure relative all’appalto integrato per la realizzazione del nuovo porto commerciale marittimo di Molfetta.
L’attività di polizia giudiziaria ha preso le mosse da una segnalazione dell’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture di Roma diretta alla Procura della Repubblica di Trani concernente presunte irregolarità relative al predetto appalto d’opera con cui venivano ipotizzate alcune limitazioni della concorrenza nel bando di gara predisposto dalla stazione appaltante (Comune di Molfetta).
Sulla base dei fatti e delle circostanze denunciate dall’Autority, venivano avviate immediate investigazioni, sviluppatesi attraverso acquisizione documentali presso uffici pubblici, l’escussione di persone informate sui fatti, ricognizioni di luoghi, perquisizioni di società nonché intercettazioni telefoniche, che consentivano di far luce sulle irrituali modalità di aggiudicazione della commessa pubblica in questione da parte del Comune di Molfetta.
Le indagini hanno messo in evidenza come un ingente fiume di denaro pubblico sia stato veicolato a favore del Comune di Molfetta per la realizzazione della diga foranea e poi del nuovo porto commerciale, grazie ad una serie di atti illegittimi ed illeciti, di interferenze amministrative e di condotte fraudolente che hanno provocato l’esborso complessivo di circa di 83 mln. di euro (a fronte di un valore totale dell’opera, quantificato in 72 mln. di euro ed a fronte invece di un impegno finanziario complessivo, sin ora preso, pari a 147 mln. di euro); e senza che l’opera sia stata realizzata e senza speranza di conclusione, nei termini previsti, considerata la presenza massiccia di ordigni residuati bellici nei fondali marini oggetto dei lavori.
L’operazione trae origine da un appalto del 2006 per la realizzazione di opere foranee e del Porto Commerciale di Molfetta affidato dal Comune ad un’ A.T.I. (Associazione Temporanea di imprese) costituita da Cooperativa Muratori & Cementisti C.M.C. di Ravenna, SIDRA S.p.A. di Roma e Impresa Pietro CIDONIO S.p.A. di Roma.
Le indagini hanno fatto emergere come il costo dell’opera sia stato (tutto compreso) quantificato in 72 mln di euro. A fronte di ciò, però, l’impegno complessivo pubblico (dapprima regionale poi statale) è stato previsto per un totale di 147 mln. di euro a seguito di varie leggi di finanziamento della stessa a partire dal 2001 e di ulteriori leggi di rifinanziamento a partire dal 2008. Incassati dal Comune 83 mln. di euro; la somma sin ora complessivamente e materialmente spesa per il porto è stata, invece, di circa 42 mln di euro.

Il Comune di Molfetta aveva quindi proceduto all’illegittima assegnazione di parte della commessa in argomento al fine di:
–     destinare al pagamento delle spese correnti le disponibilità economiche rinvenienti dai finanziamenti e dalle erogazioni statali concesse con la specifica e vincolata destinazione al pagamento dei lavori di completamento della diga foranea e di ampliamento del porto commerciale;
–     far risultare nei bilanci di previsione un fittizio equilibrio economico-finanziario dell’Ente comunale attestando falsamente il rispetto del “patto di stabilità” da parte del Comune medesimo assicurando quindi la stessa sopravvivenza finanziaria del Comune di Molfetta evitando il rischio default.
Ciò avveniva, come dimostrato dalle indagini svolte, attraverso l’alterazione della veridicità delle spese correnti proprie dell’Ente comunale, a tal fine usando l’artificio contabile di scrivere nel capitolo di bilancio in conto capitale relativo ai finanziamenti statali erogati per il completamento della diga foranea di Molfetta e per l’ampliamento del porto commerciale spese non riferibili a tale titolo e non pertinenti ad esso (e pertanto da imputarsi in conto spese correnti).

In pratica, l’incondizionata disponibilità finanziaria pervenuta, fin dal 2001, in capo al Comune si è tradotta in una sorta di gestione del potere pubblico-finanziario nel consapevole ed illegittimo utilizzo dei fondi pubblici (destinati per legge esclusivamente ai lavori di prosecuzione ed ampliamento della diga foranea e del porto), appostandoli in bilancio in modo da far apparire il pareggio dello stesso, il formale adempimento del patto di stabilità e quindi la stessa sopravvivenza finanziaria del comune di Molfetta, evitando il rischio default.

In tale contesto si innesta la nota e storica vicenda degli ordigni bellici che ancora si addensano su buona parte del fondale dell’area portuale di Molfetta ivi compresa quella interessata dall’esecuzione dei suddetti lavori e che di fatto hanno reso e rendono impraticabile l’esecuzione degli stessi.

Invero, il Comune di Molfetta sin dal 2004 affidava ad una ditta specializzata un’attività dedicata di scandaglio dei fondali, interrotta nel 2005 proprio a causa della enorme concentrazione degli ordigni bellici presenti. 

Le indagini hanno dimostrato che la presenza di ordigni sul fondale del Porto, ben nota quindi alle parti contraenti ancor prima della consegna dei lavori, e oggettivo ostacolo alla realizzazione delle opere foranee, non ha dissuaso dall’attivare la citata gara d’appalto né, soprattutto, l’esecuzione dei lavori portuali senza una effettiva e preventiva bonifica dei fondali. Anzi, ad un certo punto dell’iter esecutivo è stata anche formalizzata un’onerosa transazione pari ad ulteriori 7,8 mln di euro – tratti dai fondi pubblici – per risarcire l’ATI appaltatrice del ritardo nell’esecuzione dei lavori stessi.

Inoltre, a causa di tali ostacoli, si è stati anche costretti a ridimensionare di parecchio l’intervento esecutivo, senza proporzionali riduzioni del compenso.
La vera attività di bonifica dei fondali iniziava solo nel luglio 2008 a cura di apposito nucleo della Marina Militare e cioè dopo la consegna alla citata A.T.I. dei lavori relativi al porto.

Nella complessa vicenda le indagini hanno, infine, riscontrato altri numerosi reati, tra cui una serie di illeciti ambientali e paesaggistici, consistenti nella  realizzazione di una discarica abusiva (cosiddetta “cassa di colmata”) all’interno dell’area di cantiere del porto – nella quale sono presenti numerosi ordigni bellici rimossi durante le operazioni di dragaggio del fondale non smaltiti secondo la normativa vigente, nonché materiali di risulta delle opere di scavo sottomarino in violazione della normativa che regola la gestione dei rifiuti (D. Lgs. n.152/2006), nonché del T.U. dell’edilizia (D.P.R. n.380/2001), del codice del Paesaggio (D. Lgs n.42/2004) e della disciplina speciale in tema di bonifica da ordigni bellici.

Nel corso delle indagini venivano infine accertati numerose gravi violazioni alle norme poste a tutela del patrimonio ambientale e paesaggistico. Il Comune di Molfetta al fine di conseguire i finanziamenti aveva falsamente asserito l’inesistenza sull’area portuale di vincoli imposti dalla normativa europea e nazionale in tema di ambiente e paesaggio. L’area interessata dagli interventi insisteva, infatti, in una zona tutelata dal Piano Urbanistico Territoriale Tematico per il Paesaggio (P.U.T.T.) della Regione Puglia poiché area ambientale protetta nonché assoggettata sia a vincolo storico-paesaggistico che ambientale-naturalistico, in parte ricadente nel sito di importanza comunitaria denominato “Posidonieto San Vito – Barletta”.

Si evidenziato come, il percorso compiuto dal Comune per ottenere i detti finanziamenti, passava anche attraverso l’asserita inesistenza, sull’area portuale molfettese, di vincoli imposti dalla normativa europea e nazionale in tema di ambiente e paesaggio con particolare riferimento ai S.I.C. – Siti di Importanza Comunitaria (Rete Natura 2000-Direttiva Habitat) tesi alla tutela di habitat naturali quali sono le acque portuali molfettesi ricche di colonie di alga poseidonia.

A fronte dell’attività investigativa sono, come detto, state tratte in arresto (ai domiciliari) due dei responsabili (l’ex dirigente comunale Vincenzo Balducci) ed il procuratore speciale della C.M.C. nonché direttore di cantiere Giorgio Calderoni.

E’ stato inoltre eseguito il sequestro dell’area destinata al nuovo porto e la somma residua di uno dei mutui della Cassa Depositi e Prestiti destinati al finanziamento dell’opera.

MOLFETTA, LA TRUFFA DEL PORTO

Azzollini e il porto di Molfetta, una legge ad personam potrebbe assolverlo

di Mario Portanova – www.ilfattoquotidiano.it

Antonio Azzollini, campione delle leggi ad se stessum. Il latino è del tutto maccheronico, ma rende l’idea. Il senatore Ncd, presidente della Commissione bilancio, di recente attenzionato per la seconda volta dalla Corte dei Conti, potrebbe scampare dalle accuse che lo hanno fatto finire nel registro degli indagati per la vicenda del porto di Molfetta, città pugliese di cui era sindaco, un appalto da 57 milioni per un’opera mai finita, ma per la quale lo Stato ha stanziato finora oltre 169 milioni. Secondo Repubblica Bari, un piccolo comma inserito in una legge approvata l’anno scorso (quella dei famosi 80 euro di Renzi) potrebbe far cadere una delle accuse contestate al politico alfaniano dalla Procura di Trani. Quella di aver versato 5,7 milioni di euro alle imprese appaltatrici del porto con un “artifizio contabile”, sostengono i pm, in modo tale che il Comune di Molfetta apparisse comunque in regola con il patto di stabilità per gli enti locali.

Repubblica chiama in causa il comma 1-bis dell’articolo 18 del decreto legge n.16 del 2014, poi convertito in legge. E proprio in sede di conversione (prima stranezza) è comparso il “bis” incriminato. Il quale, “per i mutui contratti dagli enti locali antecedentemente al 1o gennaio 2005″ offre una nuova interpretazione di una precedente norma, il comma 76 dell’articolo 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311. Proprio quella che i pm di Trani contestano ad Azzollini di aver violato. La nuova interpretazione è tale che “l’ente locale beneficiario può iscrivere il ricavato dei predetti mutui nelle entrate per trasferimenti in conto capitale, con vincolo di destinazione agli investimenti”. Così facendo, “l’eventuale rimborso da parte dello Stato delle relative rate di ammortamento non è considerato tra le entrate finali rilevanti ai fini del patto di stabilità interno”. Un cavillo supertecnico, ma a sollevare sospetti è innanzitutto il riferimento netto al 2005, visto che il pagamento incriminato era stato iscritto nel bilancio del Comune di Molfetta giusto nel 2004. E l’inchiesta contro Azzollini e una sessantina di indagati era diventata di pubblico dominio il 7 ottobre 2013, con due arresti. Come mai sei mesi dopo, nel marzo del 2014, qualcuno si preoccupa di intervenire sui mutui contratti dai Comuni otto anni prima?

Non è la prima volta che il Parlamento licenzia leggine utili al potente ex sindaco di Molfetta. Fra le accuse della Procura di Trani contro Azzollini c’è quella di avere dirottato i copiosi fondi statali stanziati per il porto ad altre destinazioni, dalla pista di atletica alla sistemazione dei marciapiedi. Molti di questi dirottamenti, però, non possono essergli contestati in virtù di una norma del 2005 (il dl 203 poi convertito in legge), secondo la quale i fondi da quel momento in poi stanziati per il porto di Molfetta potevano essere utlizzati anche per “la realizzazione di opere di natura sociale, culturale e sportiva”. Il pronto soccorso ad Azzollini è spesso bipartisan. Nell’ottobre scorso il Pd è stato determinante per respingere la richiesta della Procura di Trani di utilizzare alcune intercettazioni telefoniche – sempre relative all’inchiesta sul porto – in cui compariva il parlamentare. Il prezzo pagato dai dem fu una lacerazione interna con tanto di autosospensione del senatore Felice Casson. Una vicenda che ha poi pesato sulla sua decisione di candidarsi a sindaco di Venezia, con la prospettiva di lasciare Palazzo Madama (e i suoi compromessi) se eletto.

Porto Molfetta, 53 milioni di danni. La Corte dei conti contro Azzollini

di Giuliano Foschini – bari.repubblica.it

Il Senato ha votato contro l’utilizzo delle sue intercettazioni telefoniche. Ma il senatore di Ncd, Antonio Azzollini, rischia di pagare a caro prezzo la brutta storia del porto di Molfetta: 53 milioni. E’ questo il danno erariale per il quale lui, insieme con tutti gli amministratori coinvolti nella maxi inchiesta di Trani sono stati denunciati alla Corte dei Conti dalla Guardia di Finanza affinchè venga stabilito se sono stati spesi soldi non dovuti.

Il caso è noto. La realizzazione del porto a Molfetta, città guidata dall’allora sindaco Azzollini, senatore e presidente della Commissione bilancio.

Secondo l’accusa della Procura di Trani, il porto era un’opera irrealizzabile: il fondale del porto di Molfetta era pieno di ordigni bellici, residui della seconda guerra mondiale. Sminarlo era praticamente impossibile o comunque troppo costoso. Motivo per cui i lavori non avrebbero potuto mai essere terminati. Ciò nonostante però il lavoro fu appaltato e i lavori furono effettivamente sospesi. Ciò nonostante da Roma continuavano ad arrivare soldi che Azzollini, questa l’accusa della Procura, avrebbe utilizzato su altre spese di bilancio. In modo da soddisfare interessi elettorali. Qualche esempio: vengono presi dai soldi del porto i 624mila euro dati ai dipendenti come incentivi comunali, i due milioni e mezzo per i nuovi marciapiedi, i tre milioni per la pista di atletica, i 221mila per il palazzetto dello sport, i 375mila per i gabbiotti e le tende da sol del “mercato diffuso”, i 300mila per il centro minori più una serie di spese correnti compresi i “111.526 euro in “cancelleria e stampa” e 34.378 euro in “conti di ristoranti”. «In sostanza – scrive la procura di Trani in uno dei suoi atti di accusa – l’amministrazione Azzollini ha utilizzato quel denaro per creare un “fittizio equilibrio economico”, e a attestare falsamente il patto di stabilità. L’amministrazione sostituiva le spese d’investimento con uscite non aventi tale natura, e ‘copriva’ queste ultime a carico dei finanziamenti e trasferimenti finalizzati alla costruzione del nuovo porto commerciale». Porto che appunto cominciato, finanziato (sono stati costretti anche a pagare una penale milionaria alla Cmc, la società che aveva vinto la gara ma non ha potuto continuare per via delle bombe) e ora ancora rifinanziato con altri dieci milioni nell’ultima finanziaria.

Eppure che su quell’appalto ci fosse qualcosa che non andasse lo aveva già detto nel 2008 l’Authority sull’appalto che aveva parlato di una «illegittimità del bando di gara». L’appalto prevedeva l’esistenza di una draga, una particolare macchina per l’escavazione subacquea, che ha soli tre esemplari al mondo. «Una richiesta fortemente limitativa della concorrenza » diceva il Garante che aveva previsto anche il resto. In un’ispezione della Finanza del 2008 si diceva «che a causa delle attività di bonifica dei fondali dagli ordigni bellici, i lavori di dragaggio non hanno ancora avuto un concreto inizio» e quindi chissà quando sarebbero finiti. Da qui la possibilità che l’azienda appaltatrice, come effettivamente poi accaduto, potesse chiedere i danni «per fermo cantiere ed inutilizzo dei macchinari» con «profili di potenziale danno erariale» per le casse del Comune.

«Siamo stati facili Cassandre, purtroppo» dicono ora dall’Authority dove fanno notare anche una seconda circostanza. L’appalto era stato bandito per 63,8 milioni e vinto da una Ati tra Cmc, Società italiana dragaggi e Pietro Cidonio con un ribasso del 10 per cento portando il valore di contratto a 57,6 milioni. Sei mesi dopo, una volta presentato il progetto esecutivo, il costo lievita a 69,4 milioni. «Grazie a questo meccanismo scrive l’Autorità – l’impresa recupera di fatto il ribasso offerto, oltre ad un ulteriore maggiore importo del 10 per cento».

“Messa in sicurezza” del porto? Dissequestriamo le carte

Il 4 febbraio u.s. è stata affissa all’albo pretorio comunale la “DELIBERA DI GIUNTA N.14 DEL 28/01/2015: OPERE DI MESSA IN SICUREZZA DEL NUOVO PORTO COMMERCIALE DI MOLFETTA. APPROVAZIONE PROGETTO ESECUTIVO”. Da mesi il dibattito politico cittadino, dentro e fuori il Palazzo di Città, si è sviluppato intorno al tema del nuovo porto commerciale e dalla lettura della Delibera n. 14 ci aspettavamo di cogliere elementi utili per farci un’idea di quello che la “Nuova Molfetta” ha intenzione di fare su questo progetto. Investire oltre 7 milioni di euro per la “messa in sicurezza” vuol dire dare chiari indirizzi di sviluppo successivo dell’opera; investire tale somma vuol dire predisporre, bloccandolo, il progetto esistente per poi continuarlo come previsto; oppure, mettere in sicurezza le opere già esistenti potrebbe significare bonificare completamente l’intera area direttamente interessata ai lavori comprendendo anche quell’area più esterna alla “zona rossa” verso l’inutile sperone già completato?

Insomma la “messa in sicurezza” potrebbe dire e significare tante cose ma la delibera non le spiega e non fornisce alcuna chiave di lettura, almeno quella affissa all’albo pretorio. Il cittadino attento rimane deluso leggendo questa delibera perchè, oltre a leggere tra i progettisti il nome dell’Ing. Gianluca LOLIVA, uno dei 61 indagati dell’Operazione D’Artagnan (responsabile della R.T.I. costituita tra Acquatecno s.r.l., Architecna Engineering s.r.l., Idrotec s.r.l. e la ditta individuale G. Loliva), si rende conto che qualcosa non quadra.

Intanto le 15 Relazioni, i 9 Elaborati grafici generali, i 26 Elaborati grafici Banchine Nord-Ovest e Martello, i 5 Elaborati grafici secondo braccio del molo di sopraflutto, l’Elaborato grafico degli impianti, il Piano di Sicurezza e Coordinamento, sono solo un mero elenco riportato due volte in delibera ma non allegato alla stessa. Ora ci chiediamo se questa amministrazione vuole veramente essere diversa da quella guidata da Azzollini e dimostrare la discontinuità dal passato? Non ci sembra che con questo atto amministrativo possa dimostrarlo, anzi peggiora quell’immagine di trasparenza e partecipazione che ha alimentato e alimenta la quotidiana propaganda politica. Quando si legge nel corpo della delibera, a pag.5, che gli obiettivi del ” Progetto dei lavori di messa in sicurezza e salvaguardia delle opere di costruzione del porto Commerciale di Molfetta“, si potrebbe intuire che le carte presentate dall’Ing. LOLIVA siano qualcosa di diverso da quello che l’amministrazione comunale vuole farci intendere e che nei fatti è nel titolo, abbastanza generico, della delibera n.14 del 28.01.2015, “Opere di messa in sicurezza del Nuovo Porto Commerciale di Molfetta“.

Per questi motivi abbiamo presentato in data 16 febbraio 2015 prot. n. 11850, la richiesta di presa visione e copia di tutti gli elaborati tecnici, grafici e relazioni del progetto esecutivo contenuti nella “DELIBERA DI GIUNTA N.14 DEL 28/01/2015: OPERE DI MESSA IN SICUREZZA DEL NUOVO PORTO COMMERCIALE DI MOLFETTA. APPROVAZIONE PROGETTO ESECUTIVO” (affissa all’Albo Pretorio il 4.1.2015 al numero progressivo 201), ai sensi della legge 241/90 (modificata e integrata dalla Legge 15/2005) e del decreto legislativo n. 33/2013. 

Invitiamo tutti i cittadini attivi ad inoltrare la stessa richiesta al Sindaco e al Segretario Comunale affinché tutti siano consapevoli e informati sulla sorte delle opere sequestrate del nuovo porto commerciale e di come questa amministrazione vuole “metterle in sicurezza“. Infine suggeriamo a chi in questi giorni dichiara che il dibattito sul porto è “stato sequestrato“, di attivarsi con noi per il “dissequestro dei documenti” e la loro pubblicazione in rete, in modo che il vero dibattito sul futuro del porto possa nascere sulla base della conoscenza dei progetti vecchi e nuovi. Questa sì che sarebbe una festa per la democrazia e della partecipazione vera, e non solo propagandata.

Messa in sicurezza Porto n.14_28.1.2015

Mario Portanova e la sua inchiesta sul porto di Molfetta. Dal suicidio del Dirigente Enzo Tangari alle intercettazioni di Azzollini negate dal Senato

Azzollini e il dirigente suicida: “Dal senatore pressioni per ostacolare i pm”

di Mario Portanova – www.ilfattoquotidiano.it

Una Panda beige imbocca l’ingresso del porto a forte velocità, percorre il molo, alla curva tira dritto senza frenare. L’auto finisce in mare, proprio sotto il faro, dove ancora oggi si vede la banchina sbrecciata sul bordo. Così, alle 8 e mezzo del mattino del 12 marzo 2013, ha messo fine alla sua vita Enzo Tangari, 59 anni, moglie e tre figli, dirigente del Settore appalti del Comune di Molfetta, in provincia di Bari. Cinque mesi più tardi, il 7 ottobre, due persone finiranno in carcere e altre sessanta indagate nell’inchiesta della Procura di Trani sulla costruzione del nuovo porto, un affare da 70 milioni di euro per il quale, però, le casse pubbliche ne hanno già stanziati circa 170, compreso l’ultimo fondo da dieci milioni garantito dalla legge di stabilità 2015.

E’ la vicenda che vede inquisito, tra gli altri, l’ex sindaco Antonio Azzollini (a sinistra nella foto), Ncd, presidente della Commissione bilancio del Senato, accusato di truffa ai danni dello Stato e altri reati. Un’inchiesta che ha travolto la macchina comunale e le società appaltatrici, guidate dalla coop rossa Cmc di Ravenna. Le manette sono scattate ai polsi di Vincenzo Balducci, dirigente comunale responsabile unico dell’appalto, e del procuratore speciale della Cmc, nonché direttore del cantiere, Giorgio Calderoni. Secondo l’accusa, l’amministrazione Azzollini ha dirottato ad altri scopi parte del fiume di denaro piovuto sulla città, riconoscendo per di più alle aziende appaltatrici “risarcimenti” milionari, contestati dai magistrati, per i ritardi nei lavori dovuti alla presenza di migliaia di ordigni bellici inseplosi sui fondali dell’erigendo nuovo porto. Il contestatissimo affare del porto è la pista principale imboccata dalla Procura di Trani sulla morte di Enzo Tangari. La pm Silvia Curione ha aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio, poi passata ad Antonio Savasta, uno dei titolari dell’indagine sul faraonico scalo a oggi incompiuto. Continua a leggere QUI

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Azzollini, storia di un intoccabile e del suo porto da 170 milioni. Mai realizzato

di Mario Portanova – www.ilfattoquotidiano.it

C’è una relazione dell’Autorità di vigilanza sugli appalti pubblici che porta la data del 15 gennaio 2009 ed elenca una sfilza di gravi irregolarità nei lavori per il nuovo porto di Molfetta, opera faraonica da 70 milioni di euro (poi esplosi in modo incontrollabile e tuttora lievitanti) voluta dal senatore Antonio Azzollini, Ncd, potente presidente della Commissione bilancio del Senato ed ex sindaco della cittadina in provincia di Bari. Da quel documento, trasmesso alla Procura Trani, è nata l’inchiesta con 62 indagati che il 7 ottobre 2013 ha portato all’arresto di due persone: il responsabile unico dell’appalto per il Comune, Vincenzo Balducci, e il procuratore speciale della Cmc, l’azienda appaltarice, Giorgio Calderoni. E all’accusa, per Azzollini, di truffa ai danni dello Stato, falso ideologico, falso in atto pubblico, abuso d’ufficio, violazione delle normative ambientali, violazione della normativa sul lavoro, violenza e minaccia a pubblico ufficiale. In mezzo, il 12 marzo 2013, il sucidio del dirigente del settore appalti del Comune di Molfetta, Enzo Tangari, che si è lanciato in mare con la sua Panda dal molo del porto vecchio nei giorni in cui la polizia giudiziaria acquisiva in Municipio i documenti necessari a chiudere l’inchiesta. Continua a leggere QUI

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Azzollini, porto milionario su un mare di bombe. Cmc: “Opera non eseguibile”

di Mario Portanova – www.ilfattoquotidiano.it

La questione delle bombe è uno dei pilastri dell’accusa dei pm di Trani contro il senatore Ncd Antonio Azzollini e gli altri 61 indagati per l’incredibile appalto del nuovo porto di Molfetta. Secondo i magistrati, la presenza degli esplosivi rimasti sott’acqua dalla prima e dalla seconda guerra mondiale era ben nota in Comune (e in Cmc, la regina delle coop rosse che si è aggiudicata l’appalto nel 2007) ancora prima che la gara partisse, e che quindi fosse nota la “pratica impossibilità”, si legge nelle carte dell’accusa i pm, di realizzare l’opera. Un buona pezza alla tesi dei magistrati è l’ammissione di Giorgio Calderoni, il direttore del cantiere e procuratore della cooperativa ravennate, arrestato nel blitz del 7 ottobre 2013. Intercettato al telefono il 21 maggio 2010, Calderoni commenta la sostanziale immobilità dei lavori: “Probabilmente l’errore è sul fatto che… cioè lo sforzo di seguire questa amministrazione che ha fatto il senatore per il porto eccetera… l’errore è stato quello di concentrarsi tanto anche se c’erano le bombe eccetera, insomma. In realtà, avrebbero prima dovuto aspettare di togliere le bombe però…”. Nettissima sul punto è l’email che il direttore tescnico del cantiere, Carlo Parmigiani, scrive allo stesso Calderoni, suo superiore in Cmc, il 29 giugno 2010 (ben tre anni prima del blocco imposto dalla magistratura, che ha messo sotto sequestro il cantiere, nella foto): “Il porto è a mio avviso palesemente non eseguibile”, scrive Parmigiani, “il problema degli ordigni è solo ed esclusivamente onere della stazione appaltante (il Comune di Molfetta, ndr)”. E conclude: “Se vuoi sapere il mio pensiero, allora vado oltre ed è chiedere di risolvere il contratto in danno alla stazione appaltante”. Continua a leggere QUI

Legge stabilità: altri 10 milioni al porto del senatore Azzollini. Ma è già finanziato

di Mario Portanova – www.ilfattoquotidiano.it

Nella legge di stabilità dei tagli ai ministeri e gli enti locali, c’è un Comune che si vede arrivare uno stanziamento di dieci milioni di euro non richiesto e di cui non sa neppure bene che cosa fare. Il Comune è quello di Molfetta, 60mila abitanti, in provincia di Bari, guidato fino all’anno scorso da Antonio Azzollini (nella foto, a sinistra), attuale presidente Ncd della Commissione bilancio del Senato, indagato per truffa ai danni dello Stato e altri reati dalla Procura di Trani nell’inchiesta sulla costruzione del nuovo porto cittadino. E proprio al progetto del porto sono legati i dieci milioni stanziati dalla manovra economica approvata la notte scorsa. Peccato che il porto sia già interamente finanziato, che il cantiere sia sotto sequestro dal 7 ottobre dell’anno scorso e che i lavori, a quella data, fossero già sostanzialmente fermi per la presenza in mare di migliaia di ordigni bellici che impedivano il dragaggio del fondale. E proprio l’utilizzo dei fondi per la costruzione del nuovo bacino – oltre 170 milioni di euro dal 2001 a oggi, di cui al 2012 ne risultavano incassati circa 60 – è al centro delle accuse dei pm di Trani, secondo i quali l’amministrazione Azzollini ha sistematicamente dirottato milioni di euro arrivati per la grande opera su altre voci del bilancio comunale, compresi incentivi ai dirigenti e persino 111.526 euro in “cancelleria e stampa”, si legge negli atti dell’inchiesta. In questo modo, accusano i magistrati, il Comune di Molfetta per diversi anni ha raggiunto un “fittizio equilibrio economico” e attestato “falsamente” il rispetto del patto di stabilità. Tra le contestazioni più gravi ad Azzollini e la sua amministrazione, quella di aver convenuto con il consorzio di imprese appaltatrici, guidato dalla coop rossa Cmc di Ravenna, una transazione da 7,8 milioni di euro a titolo di compensazione per lo stop dei lavori dovuto alla presenza degli ordigni.

Nonostante questo quadro, nella legge di stabilità appena approvata si annida un articolo inintellegibile ai più, beffardamente inserito alla voce “Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia finanziaria e tributaria”. Per scovare i 10 milioni bisogna cercare (trattenendo il fiato) il riferimento all’articolo 11 quaterdecies comma 20 del decreto legge 203/2005 convertito dalla legge 248/2005. Che rimanda, a sua volta, alla legge 174/2002 sugli stanziamenti per il “completamento della diga foranea di Molfetta”.

Completamento che, peraltro, doveva avvenire entro il 2012, quindi prima del sequestro della magistratura. Oggi i lavori, appaltati alla Cmc, i cui vertici sono indagati, sono realizzati soltanto al 60%. Il finanziamento in questione è entrato nella legge di stabilità dalla porta principale, nel testo preparato dal governo, e quando è stato svelato in Commissione lavori pubblici del Senato ha provocato le proteste del Movimento 5 stelle, ma pare aver lasciato “sbalordito” anche qualche parlamementre Pd. Lo stesso Pd che ha vissuto con parecchi mal di pancia il “salvataggio” di Azzollini in Senato, lo scorso 8 ottobre, dalla richiesta di utilizzo di alcune intercettazioni telefoniche avanzata dalla Procura di Trani, salvataggio per il quale i voti del partito di Matteo Renzi sono risultati determinanti.

Oggi al Municipio di Molfetta siede la nuova giunta di centrosinistra guidata dall’indipendente Paola Natalicchio, che nel giugno del 2013, quando l’inchiesta sul porto era in corso ma non ancora esplosa con la notizia dei due arresti e dei 60 indagati, ha strappato il ballottaggio al candidato di Azzollini, che non poteva più ripresentarsi per raggiunto il limite massimo di mandati. Certo, a caval donato (con i soldi dei contribuenti, s’intende) non si guarda in bocca, e i progetti da finanziare non mancano, ma negli uffici comunali confermano che l’attuale amministrazione non ha fatto alcuna pressione per ottenere questo nuovo stanziamento e che il completamento della “diga foranea”, a cui la legge di stabilità rimanda, non richiede allo stato altri fondi.

Attende soltanto il dissequestro del cantiere e, soprattutto, il completamento della rimozione degli ordigni bellici, a cui lavora dal 2009 lo Sdai (Servizio difesa antimezzi insidiosi) della Marina militare. In più, quando si è insediata, la nuova giunta ha avuto un bel da fare a rimettere ordine nel bilancio, per non correre il rischio di finire a sua volta sotto inchiesta: per esempio un appalto per la costruzione di nuovi marciapiedi, già in corso, è stato annullato e poi rifinanaziato da zero con altre risorse perché anche questo poggiava sui finanzamenti ottenuti per la grande opera portuale. Ma dal cielo di Roma i nuovi fondi della grande opera voluta dal potente senatore Azzollini sono piovuti lo stesso.

“Il mare a Molfetta” tra ordigni bellici, alga tossica e depuratori malfunzionanti

IL MARE A MOLFETTA

Questo video è stato realizzato per sensibilizzare maggiormente i cittadini Molfettesi, mostrando quello che molti non possono vedere, sperando di sensibilizzare anche gli enti governativi in modo che si adoperino per mettere in sicurezza il “nostro mare”.

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Una pruduzione “Nucleo sub Molfetta“in collaborazione con il “Comitato Bonifica Molfetta“. Video montaggio di Daniele Marzella in collaborazione di Maddalena De Virgilio, Paolo De Gennaro, Pasquale Mezzina e i volontari del Nucleo sub Molfetta. Musiche di Roger Stefane – Un Autre Monde; Akashic Records – Stories of The Old Mansion

Strage del Francesco Padre: «Fu un atto di guerra». I pm di Trani: è un caso Ustica

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di GIOVANNI LONGO e MASSIMILIANO SCAGLIARINI

www.lagazzettadelmezzogiorno.it

Vent’anni fa a bordo del «Francesco Padre» non c’erano né esplosivi né armi che potessero saltare accidentalmente in aria. Un «tragico errore», oppure «una rappresaglia», o infine una mina accidentalmente finita nelle reti, causarono l’affondamento nelle acque territoriali montenegrine del peschereccio partito da Molfetta. La Procura di Trani ha chiuso la terza inchiesta su ciò che avvenne alla mezzanotte e trenta del 4 novembre 1994. Uno slalom tra depistaggi, muri di gomma, perizie sbagliate e incredibili coincidenze che ribalta la verità ufficiale su quanto accadde quella notte in mare, a 20 chilometri a sud-ovest di Budva. Ma la tragedia in cui morirono 5 pescatori molfettesi rimarrà senza colpevoli. Adesso possiamo dirlo: è la nostra Ustica.

Il procuratore Carlo Maria Capristo e il sostituto Giuseppe Maralfa (oggi in servizio a Bari) avevano di fatto chiuso le indagini lo scorso febbraio, dopo due anni di lavoro. Nei giorni scorsi la Procura tranese ha chiesto l’archiviazione su cui ora dovrà esprimersi il gip Francesco Zecchillo. In questi mesi non sono arrivate risposte esaurienti alle rogatorie dettagliate inoltrate a otto governi, a partire dagli Usa. L’imponente indagine è concentrata in centinaia di pagine di ricostruzione, dalle quali emerge una verità totalmente nuova. Da un lato c’è la parola «ignoti», che non potrà essere cancellata dal capo di imputazione. Tuttavia, scrive la Procura, «si profila con alto grado di probabilità la pista omicidiaria». E, con essa, il terribile sospetto che il «Francesco Padre» possa essersi trovato nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Proprio come il Dc-9 dell’Itavia, con le stesse macabre analogie tra l’equipaggio del peschereccio Francesco Padre e i passeggeri del Bologna-Palermo precipitato nel 1980: vittime innocenti decedute in uno scenario oscuro tra guerre aperte, omissioni e, forse, depistaggi.

LE TRE IPOTESI Anzitutto, dunque, non ci fu alcuna esplosione a bordo del Francesco Padre. Proprio quello che i parenti delle vittime, assistiti dagli avvocati Ascanio Amenduni, Nicky Persico, Nino Ghiro e Vito D’Astici, e i loro compagni di lavoro, dicevano da anni: il comandante Giovanni Pansini era un uomo di mare, non un contrabbandiere o peggio un trafficante. Le conclusioni dell’inchiesta su questo sono categoriche: si deve «escludere», scrive la Procura, che il Francesco Padre «affondò in conseguenza della detonazione di un ingente quantitativo di esplosivo trasportato a bordo per finalità (ovviamente) illecite». Ma cosa accadde, allora?

Le ipotesi sono tre.

Primo: una azione «comunque collegata alla operazione Nato-Weu “Sharp Guard” e alla guerra civile in atto nella ex Jugoslavia. Secondo: «Una condotta omicidiaria premeditata posta in essere, per rappresaglia o per intimidazione, in collegamento teleologico con le attività estorsive condotte dalla criminalità organizzata serbo-montenegrina, in danno dei pescatori italiani». Terzo: la «esplosione a bordo (zona poppiera sinistra) o fuori bordo (ma in prossimità della zona poppiera-murata di sinistra dello scafo) di un ordigno pescato accidentalmente dalle reti dell’imbarcazione nel corso delle operazioni di pesca a strascico».

NIENTE ESPLOSIVI – Per sostenere questa tesi la procura deve smentire la consulenza tecnica del professor Giulio Russo Krauss, che nel 1997, sulla base delle videoriprese subacque, ipotizzò appunto una esplosione a bordo del Francesco Padre. Il punto più danneggiato, dice la Procura, fu effettivamente la murata di sinistra, tuttavia «urta contro la logica l’affermazione che l’esplosione sia avvenuta all’interno dell’imbarcazione, e segnatamente nella cala del motorista».

La tesi secondo cui nella cuccetta a sinistra della poppa, utilizzata da Luigi De Giglio, fossero trasportati esplosivi o armi, «urta contro la logica» e semplicemente «non regge», «a meno che non si voglia ipotizzare, in assenza tuttavia del benché minimo elemento anche solo indiziario in tal senso, una condotta di suicidio-omicidio». E questo per due motivi. Primo, perché se l’equipaggio avesse voluto trasportare armi o esplosivi, «il “Francesco Padre”, come tutti i motopescherecci dello stesso tipo, disponeva di numerosi altri ambienti idonei». Secondo perché i collaboratori di giustizia sentiti nel corso delle indagini hanno escluso che la marineria italiana si fosse «mai resa protagonista di traffici di tal fatta».

Terzo, perché assodato che l’epicentro della esplosione è tra la poppa e la murata sinistra, se la detonazione fosse avvenuta all’interno, trattandosi di ambiente unico «avrebbe necessariamente interessato in modo catastrofico anche la zona poppiera di destra e la murata di quel lato dell’imbarcazione», circostanza esclusa dalle immagini subacquee del 1996.

LE ANALISI – Sui reperti del peschereccio sono state trovate tracce di nitroglicerina e dinitrotoluene, che nella prima inchiesta erano stati valutati come indizio di esplosivi cosiddetti «di circostanza», tipici di ordigni artigianali. Non militari, dunque. Ma, a parte che quella in corso nella ex Jugoslavia, era effettivamente una guerra civile, e dopo la riapertura delle indagini è arrivata una conferma dal Centro di supporto e sperimentazione della Marina Militare: quelle due sostanze «sono contestualmente presenti nelle cariche di lancio di alcune tipologie di munizionamento navale» impiegato dalla nostra marina.

DALL’ESTERNO – Valorizzando la perizia dell’ingegner Guglielmo Mele, nominato dall’assicurazione del «Francesco Padre», la Procura osserva che l’esplosione avvenne «dall’esterno dell’imbarcazione verso l’interno, e non viceversa». Esattamente il contrario di quanto era stato sostenuto fino a oggi. Ma anche la nuova verità si basa sulle stesse immagini girate allora: «Un serbatoio metallico originariamente addossato alla murata sinistra, ancorché apparentemente non deformato dall’esplosione – scrive ad esempio la Procura -, è scostato dalla detta murata di alcuni centimetri (e quindi si è spostato verso l’interno dello scafo)».

LO SCAMBIO E I SERVIZI – Ma allora perché è affondato il «Francesco Padre»? Una prima ipotesi valorizza una circostanza emersa dalle nuove acquisizioni documentali che la Procura ha effettuato presso l’Aisi (i servizi segreti interni): un dispaccio Nato riferisce che il 2 novembre, alle 9,30, il sommergibile spagnolo Tramontana avvistò «un peschereccio probabilmente dedito alla pesca con esplosivi». Non era il Francesco Padre (era molto più grande, circa 400 tonnellate di stazza contro le 58 dell’imbarcazione pugliese, e aveva «lo scafo e la sovrastruttura di colore bianco con due alberi rossi»), ma – scrive la Procura – «è noto e storicamente accertato l’utilizzo di motopescherecci nella lotta antisommergibile». Il Francesco Padre, insomma, «per un tragico errore» potrebbe essere stato «scambiato per uno di quei natanti utilizzati in funzione antisommergibile e, in particolare, per il motopesca individuato due giorni prima dal sommergibile spagnolo». Avrebbero potuto chiarirlo meglio le registrazioni delle navi presenti quella notte nel teatro di operazioni. Ma la Uss Yorktown «non disponeva più dei dati relativi alle registrazioni di comando e controllo», mentre le scatole nere del pattugliatore che avvistò per primo l’esplosione «vennero addirittura distrutte già 30 giorni dopo l’incidente».

Così come le generalità dei piloti «sono state segretate dalla Nato con conseguente impossibilità di acquisirne la testimonianza». La Procura ha tentato allora con una rogatoria internazionale. Ma gli Stati Uniti si sono limitati a rispondere che «non ci sono informazioni disponibili a causa del lasso di tempo trascorso». e che «non abbiamo informazioni nei nostri archivi che indichino persone, navi o aerei statunitensi coinvolti nell’affondamento». Il Montenegro, cui è stato chiesto se c’era stata qualche operazione militare, si è opposto alla rogatoria sostenendo che le risposte «minerebbero la potenza militare dello Stato montenegrino». Il Regno Unito, poi, non ha neppure risposto.

LA RAPPRESAGLIA – L’altra ipotesi è che il Francesco Padre sia stato affondato dai montenegrini perché il suo armatore non sarebbe stato ai patti: alle imbarcazioni italiane veniva richiesto il «pagamento di tangenti per la pesca in acque montenegrine a vantaggio di una organizzazione criminale serbo-montenegrina con collegamenti di parentela ai vertici del governo di quella Repubblica». A suggerirlo, almeno in parte, una serie di documenti del Sisde secondo cui, appunto, il peschereccio italiano potrebbe essere stato affondato da parte di un sommergibile» delle forze armate Serbo-montenegrine, salpato dal «rifugio protetto» di Spiljice, quello da cui l’esercito regolare coordinava il dispositivo di blocco navale delle imbarcazioni mercantili italiane. I servizi segreti hanno consegnato i documenti, «privi tuttavia del nominativo di copertura, occultato, della fonte fiduciaria di quella divisione»: la Procura non li ha potuti interrogare, e dunque quelle informazioni non sono utilizzabili. L’inchiesta giudica tuttavia «inverosimile» il movente indicato fin dall’inizio dai servizi segreti, cioè la circostanza secondo cui il Francesco Padre trasportasse «armi ed esplosivo di provenienza russa» e dunque sarebbe stato affondato «perché non avrebbe rispettato gli accordi finanziari, relativi al carico, stipulati con funzionari governativi montenegrini». Un traffico che, sempre secondo i servizi italiani, sarebbe stato gestito direttamente dall’allora primo ministro Milo Djukanovic, già coinvolto in Italia in processi per contrabbando.

LA MINA – Terza e ultima ipotesi, quella di una mina accidentalmente impigliata nelle reti. Ma che richiede un ulteriore passo avanti rispetto all’inchiesta precedente, secondo cui al momento della tragedia l’equipaggio del Francesco Padre dormiva, tranne Mario de Nicolo (l’unico di cui è stato recuperato il corpo) che era al timone. Secondo la Procura, invece, in quei minuti l’equipaggio era intento in operazioni di pesca a strascico, in un tratto «che i pescatori di Molfetta chiamavano e chiamano Tramontana». De Nicolo, invece, non era al timone, perché altrimenti avrebbe dovuto avere «le spalle rivolte alla fonte dell’esplosione»: invece le ustioni rilevate sul suo corpo erano sulla parte anteriore del tronco. E anche gli altri marinai non erano sottocoperta, «tanto da essere scaraventati al di fuori del “Francesco Padre” esploso». In più, osserva la Procura, «la zona di mare teatro del tragico affondamento era anche all’epoca, ed è a tutt’oggi, una vera e propria pattumiera di ordigni bellici, residuati della Seconda guerra mondiale, un vero e proprio deposito occulto di esplosivi, anche di notevole potenziale, a disposizione della criminalità organizzata del Nord-Barese, come dichiarato il 30 luglio 1993 dal collaboratore di giustizia tranese Salvatore Annacondia alla Commissione parlamentare antimafia». Ma come si spiegherebbe allora la mancanza di schegge sui pochi reperti recuperati? Con il fatto che l’esplosione potrebbe essere stata causata da «una mina con involucro plastico», come sostenuto dal consulente tecnico del Comune di Molfetta, Alfieri Fontana. O in realtà le schegge ci sarebbero: lo dice la nuova relazione dei Ris, secondo cui sul tirante dell’albero di poppa (incredibilmente smarrito) ci sono «fori sospetti», uno dei quali «compatibile» con l’ipotesi della scheggia. Schegge che potrebbero essere «state trattenute dalle parti metalliche e dalle altre parti del relitto sommerso».

Azzollini, il capogruppo Pd che lo ha “salvato” indagato per peculato

Italian senators Isabella Del Monte, Felice Casson and Giuseppe Cucca attend the final hearing of a senate panel discussing if former Premier Silvio Berlusconi must surrender his Senate seat, in Rome, Friday, Oct. 4, 2013. An Italian Senate panel deciding whether ex-Premier Silvio Berlusconi should lose his seat in the upper chamber of Parliament because of his tax fraud conviction and prison sentence. (AP Photo/Andrew Medichini)

di Monia Melis – www.ilfattoquotidiano.it

Da senatore Pd, e soprattutto in quanto membro delle Giunta delle elezioni e immunità parlamentari, il nome dell’avvocato nuorese Giuseppe Cucca (nella foto con Felice Casson e Isabella Del Monte) è diventato d’un tratto noto. In qualità di capogruppo appena pochi giorni fa, insieme ad altri sette parlamentari dem, ha infatti negato l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche indirette di Antonio Azzollini, presidente della commissione Bilancio del Senato in quota Nuovo centrodestra, accusato di diversi reati nell’inchiesta sul porto di Molfetta, di cui è stato sindaco. Tra le contestazioni una presunta truffa per 150 milioni di euro e mancate bonifiche dei fondali. La cronaca è nota: dopo nove mesi di rinvii dalla giunta è arrivato il “no” e, insieme anche l’autosospensione del relatore, collega di partito, Felice Casson. Poi la rivolta interna con le accuse del deputato Pd Pippo Civati e i sospetti di pressioni politiche. Tra presunte telefonate e riunioni in corsa, quando ormai era il momento di votare. Poi il responso e il profilo basso.

Il senatore Cucca è uno dei pochi a parlare: “Chi insinua che vi siano state pressioni politiche o di altro genere lo fa in palese malafede, dato che colpevolmente dimentica che le stesse persone, anche nel recente passato, non hanno esitato ad assumere decisioni ben più delicate, che davvero avrebbero potuto avere implicazioni sulla vita politica del Paese. E ciò anche in presenza di gravi minacce per loro e per i familiari”. Ma se la notorietà nazionale viene guadagnata di volta in volta, diversa quella regionale. Il nome di Cucca in Sardegna è nell’elenco degli Onorevoli coinvolti nella maxi inchiesta sui fondi regionali. Un esercito che supera gli ottanta nominati distribuiti nei tre filoni portati avanti dalla Procura di Cagliari, con costante aggiornamento.

L’accusa per tutti è di peculato: aver utilizzato i soldi destinati all’attività istituzionale per spese e fini diversi, personali. Alla base dell’inchiesta, prima in Italia, c’è il resoconto della supertestimone Ornella Piredda, già dipendente del Gruppo misto. Lo schema è poi stato applicato a diverse legislature, nella filosofia, ribadita durante gli interrogatori che “così fan tutti”. Ecco quindi la distribuzione dei soldi pubblici – milioni di euro – con il sistema “paghetta”: non attività e spese istituzionali da rimborsare ma un tot a consigliere, quasi mai documentato. In particolare il senatore Cucca è indagato da ottobre del 2013, in quanto ex consigliere regionale della Margherita, insieme ad altri 32 appartenenti del centrosinistra con cifre mediamente basse rispetto ad altri colleghi di assemblea. Il pm Marco Cocco gli contesta presunte spese illecite per 19.608 euro relativi alla XIII legislatura, tra il 2004 e il 2009. Così suddivisi: 15mila euro ottenuti dal gruppo, 4mila attraverso il bancomat.

Un secondo avviso a comparire è stato poi notificato qualche mese più tardi, a giugno, per altri 2mila euro. Tutti i consiglieri sorpresi, ma non scossi, pronti a giustificare e a trovare fatture e ricevute. Mentre si indaga su viaggi e altri acquisti ritenuti non in linea. Cucca allora aveva dichiarato: “Quei fondi non li ho usati neppure tutti, ma voglio prima capire di cosa mi si accusa; capisco meno, ma so che è normale in questi casi, la gogna mediatica che si scatena, come se avessimo fatto chissà cosa”. A fine gennaio l’interrogatorio di novanta minuti in compagnia del legale. Il senatore ha definito di aver fatto le spese sospette per “fini istituzionali”, comunque “giustificabili per fini politici”: come i costi sostenuti per dipendenti e uffici.

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