Per il processo del nuovo porto di Molfetta saranno ascoltati il cap. Giambattista Acquatico, l’operatore subacqueo Claudio BUOSO e l’ex ass. Pietro UVA

Presso il Tribunale di Trani, domani 19 novembre alle ore 14.00, prosegue speditamente il processo sulla costruzione del nuovo porto di Molfetta. Il collegio giudicante presieduto dalla Presidente Dott.ssa Marina Chiddo, e dai giudici a latere Dott.sse Sara Pedone e Claudia Pizzicoli, ascolteranno altri testi. Saranno interrogati dal Pubblico Ministero Dott. Giovanni Lucio Vaira, il Capitano di Fregata Giambattista Acquatico, Comandante del Nucleo S.D.A.I. (Sminamento e Difesa Antimezzi Insidiosi); Giacomo Claudio BUOSO, un sommozzatore che ha partecipato alle varie fasi della bonifica dei fondali marini dell’area portuale. E’ stato convocato dal Pubblico Ministero anche l’ex assessore avv. Uva Pietro, ma probabilmente la sua testimonianza sarà rinviata al prossimo 3 dicembre.

Le testimonianze di Acquatico e Buoso riguarderanno le operazione di bonifica sistematica dell’area portuale di Molfetta, nell’ambito delle attività regolate dall’“Accordo di Programma per la caratterizzazione e la bonifica da ordigni bellici ai fini del risanamento ambientale del Basso Adriatico”, redatto e sottoscritto, nel Novembre 2007, tra Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Regione Puglia, Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e Tecnologica applicata al Mare (I.C.R.A.M) ed Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente della Puglia (A.R.P.A.).

Per dare attuazione al suddetto accordo, la Regione Puglia, in qualità di membro esecutore dell’AdP, siglò, nel settembre 2008, un apposito Protocollo d’Intesa con lo Stato Maggiore della Marina Militare, successivamente integrato, nel settembre 2009, con una “Convenzione per la permuta di prestazioni finalizzata alla caratterizzazione e la bonifica da ordigni bellici ai fini del risanamento del Basso Adriatico” con la quale la MM si impegnava a realizzare la bonifica, ad opera dei propri Nuclei SDAI, dei residuati bellici, segnalati in esito a prospezioni condotte a cura dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (I.S.P.R.A., Ente che nel frattempo aveva assorbito i compiti dell’ICRAM). La Regione Puglia, di contro, si impegnava ad assicurare, in favore della M.M.I., la fornitura di combustibile navale distillato (F- 76) di valore pari alle prestazioni fornite e sino al raggiungimento delle risorse economiche rese disponibili, per un ammontare di € 2.300.000,00.

Dall’esame della documentazione che Giacomo Claudio BUOSO ha esibito in sede di sommarie informazioni testimoniali è emerso un dato inquietante: anche la certificazione di area sgombra da ordigni bellici che ZANNINI ha prodotto in data 08.05.2012, per i lavori di prolungamento della Diga Antemurale, è risultata essere non veritiera.

Infatti leggendo la descrizione di Buoso (elenco n.1) e confrontandola con quella di Zannini (elenco n.2) si noterà come gli ordigni diventavano semplici target  metallici e “una bomba di aereo chimica di cm 38×80 con spoletta (WP415)” era diventata “un cilindro metallico” di cm 38×80. 

Sicuramente molto interessanti saranno le dichiarazione del Capitano Acquatico circa la situazione della bonifica bellica e il numero degli ordigni recuperati o distrutti alla data del 30.06.2013.

Processo Porto di Molfetta, escono di scena alcuni imputati per avvenuta prescrizione dei reati

Dopo quella del 22 gennaio si è tenuta ieri, presso il Tribunale di Trani, un’altra udienza fiume del processo sui presunti illeciti commessi per la costruzione del porto commerciale di Molfetta. Il collegio sindacale presieduto dalla dott.ssa Marina Chiddo e dai giudici a latere, dott.sse Laura Cantore e Sara Pedone che si è pronunciato sulla proposta del PM dott. Giovanni Lucio Vaira di stralciare le posizioni di alcuni imputati che escono dalla scena processuale per intervenuta prescrizione dei reati a loro contestati. Quindi, sentenza breve e immediata per loro. L’ex senatore e ex sindaco di Molfetta, Antonio Azzollini, e l’ex dirigente ai Lavori pubblici del Comune, Vincenzo Balducci, avendo rinunciato alla prescrizione, per alcuni reati contestati loro, continuano a rimanere nel processo. Nessuna eccezione da parte delle parti civili presenti, ovvero del Ministero dell’Ambiente e dell’Interno, della Regione Puglia, della LegambienteCircolo di Molfetta” e del “Comitato cittadino per la bonifica marina a tutela del diritto alla salute e all’ambiente salubre (Comitato Bonifica Molfetta), queste ultime due rappresentate dall’Avv. Annamaria Caputo.

Grande assente la parte civile del Comune di Molfetta.

Dopo questo alleggerimento processuale, l’aula ha continuato ad ascoltare il luogotenente Roberto Serafino in servizio presso il Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Bari, Sezione Anticorruzione, autore di diverse informative redatte nell’ambito delle indagini preliminari.

Il luogotenente Serafino, sollecitato dal pm Vaira, ha continuato a ripercorrere le fasi più salienti dell’indagine sul nuovo porto di Molfetta. La sua lunga e dettagliata escussione parte dall’origine del Procedimento Penale 1592/09, rappresentata da una segnalazione della autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di Roma, una segnalazione inviata alla Procura Generale alla Corte d’Appello di Bari e alla Corte dei Conti, che trasmetteva poi la stessa segnalazione per competenza alla Procura di Trani.

L’autorità per la vigilanza sui contratti pubblici era stata sollecitata da una segnalazione della Società Italiana per Condotte d’Acqua di Roma, la quale evidenziava all’Autorità l’irregolarità del bando di gara e del disciplinare di gara indetto per l’ampliamento del porto commerciale di Molfetta.

Nello specifico si prevedevano delle clausole limitative della concorrenza ovvero sia il bando che il disciplinare prevedevano il possesso di determinate attrezzature quali delle particolari draghe e il possesso anche, la disponibilità di cave ove smaltire i prodotti che residuavano dall’attività di dragaggio dei fondali; soprattutto con riferimento alle draghe, ipotizzava la società Italiana per Condotte d’Acqua che, essendo delle draghe molto particolari, ve ne fossero pochissime al mondo e quindi sostanzialmente avrebbe vinto e si sarebbe aggiudicata la gara la società che riusciva ad ottenere la disponibilità di queste draghe.

La draga D’Artagnan non è mai arrivata a Molfetta e la Direzione Vigilanza Lavori avviò un’attività di monitoraggio dell’attività svolta in cantiere mediante delle richieste di documentazione rivolta alla stazione appaltante al Comune di Molfetta e, successivamente, furono eseguite delle ispezioni dirette in cantiere avvalendosi anche della collaborazione del Nucleo Speciale Tutela Mercati della Guardia di Finanza di Roma. All’esito di queste ispezioni in cantiere si rilevarono diverse illegittimità. E poi il Luogotenente Serafino attraverso la lettura di numerosissime intercettazioni telefoniche ha ripercorso tutte le attività d’indagine sulla perizia di variante e della realizzazione del “pennello  sperone”, i dubbi sulla qualità dei materiali lapidei usati non corrispondenti al capitolato d’appalto, la mancata protezione e tutela del Posidonieto, sito d’interesse Comunitario, la dubbia provenienza dei massi dalle cave non autorizzate, i sub appalti avvenuti e non comunicati alle autorità di controllo e tanti altri illeciti.

La prossima udienza è prevista per il prossimo 19 Marzo per completare l’escussione del Luogotenente Serafino e l’eventuale controesame delle difese e delle parti civili.

L’Italia è circondata da un mare di bombe

di Marco Sarti  – www.linkiesta.it

L’Italia è circondata da un mare di bombe. Letteralmente. Dal Basso Adriatico al Golfo di Napoli, sui nostri fondali sono sepolti migliaia di ordigni inesplosi più o meno recenti. Per far luce sull’inquietante fenomeno, a fine gennaio il deputato pugliese del Partito democratico Salvatore Capone ha presentato un’interrogazione al governo. Il documento è stato recentemente calendarizzato in commissione Attività produttive, entro una decina di giorni arriverà una risposta. «C’è stato qualche ritardo – racconta il parlamentare – ma mi hanno assicurato che al ministero dell’Ambiente ci stanno lavorando».

A colpire sono i numeri. «Oltre 30mila ordigni inabissati nel sud del mare Adriatico – si legge in un dossier elaborato da Legambiente nel 2012 e citato nell’interrogazione – di cui 10mila solo nel porto di Molfetta e di fronte a Torre Gavetone, a nord di Bari». Sono armamenti risalenti alla Seconda Guerra Mondiale, nella maggior parte dei casi. Solo nel mare antistante Pesaro sono state inabissate «4.300 bombe all’iprite e 84 tonnellate di testate all’arsenico», mentre nel golfo di Napoli si contano «13mila proiettili e 438 barili contenenti iprite». Retaggi di conflitti lontani e recenti, come la guerra in Kosovo. L’analisi di Legambiente – elaborata insieme al Coordinamento nazionale bonifica armi chimiche – concentra l’attenzione anche su numerosi ordigni sganciati dagli aerei Nato nel Basso Adriatico. Si tratta di migliaia di bomblets, piccole cariche «derivanti dall’apertura delle bombe a grappolo sganciate sui fondali marini».

L’interrogazione del deputato Capone passa in rassegna le località più colpite. Non fanno eccezione neppure le Riserve naturali. È il caso dell’isola di Pianosa, la più piccola del suggestivo arcipelago delle Tremiti. Il documento di Montecitorio ricorda «l’ordinanza della Capitaneria di porto di Manfredonia che, nel 1972, vietò per motivi di sicurezza l’ancoraggio, la pesca subacquea e la balneazione per una profondità di 500 metri dalla costa nelle acque di Pianosa, i cui fondali ospitano una distesa di ordigni della Seconda Guerra Mondiale». Un discorso a parte meritano i fondali della zona di Bari. Nel porto del capoluogo pugliese il 2 dicembre del 1943 un bombardamento tedesco affondò una ventina di navi alleate. Molte di queste si inabissarono con il loro contenuto, nelle stive, di migliaia di bombe caricate con diverse sostanze chimiche.

«Ciascuna bomba – si legge nel citato dossier di Legambiente – lunga quasi 120 e del diametro di 20 cm conteneva circa 30 kg di iprite, un gas tossico e vescicante, dal caratteristico odore di aglio». Ordigni micidiali. «Con otto bombe si poteva contaminare completamente oltre un ettaro di terreno». Le operazioni di bonifica furono avviate alla fine della guerra e durarono alcuni anni. I rapporti dell’epoca raccontano l’entità del fenomeno. I soli ordigni chimici recuperati – una parte minoritaria rispetto al totale – ammontavano a 15.551 bombe d’aereo e 2.533 casse di munizioni. Oggi molte di quelle armi rischiano di essere ancora sotto i nostro mari. «Le operazioni consistevano nel recupero dei vari ordigni, dai fondali del porto, e nel loro caricamento su appositi zatteroni. Successivamente apposite ditte civili trasportavano al largo questi zatteroni e ne affondavano il carico su fondali del nord barese ed in particolare al largo di Torre Gavetone». Alcune di queste bombe, ad esempio, sono finite nel mare di Molfetta, dove è da poco terminata una lunga e complessa bonifica da parte delle nostre Forze Armate.

Salendo più a Nord si arriva nelle Marche. Come racconta l’interrogazione, anche questo mare non è immune dalla presenza di ordigni. Il documento depositato a Montecitorio cita una «cartografia dell’Arpa regionale frutto di indagini svolte negli anni ’50, che mostra con chiarezza la presenza di ordigni lungo la fascia costiera tra Pesaro e Fano». Secondo chi si è occupato della vicenda, qui si tratta di ordigni affondati nel 1944 dai militari tedeschi attestati lungo la Linea Gotica. Lo studio di Legambiente cita 84 tonnellate di testate all’arsenico e 1.316 tonnellate di iprite provenienti dal deposito di Urbino, finite in mare «dove ancora oggi continuano ad essere potenzialmente molto pericolose». Un mare di bombe, senza troppe eccezioni. L’interrogazione di Capone cita un articolo del quotidiano La Stampa che già nel 2013 – riprendendo il Portolano della navigazione dell’Istituto Idrografico della Marina – denunciava la presenza di «decine di mine magnetiche, siluri, proiettili o altri ordigni esplosivi» tra mar Adriatico, Ionio e Tirreno. «Solo per il basso Adriatico – si legge – sono più di 200 i casi documentati di pescatori intossicati e ustionati dalle esalazioni sprigionatesi da armi chimiche portate a galla con le reti».
L’interrogazione parlamentare non cita la Campania, presente invece nel dossier di Legambiente del 2012. «Per il Golfo di Napoli – scrive l’associazione ambientalista – la situazione è testimoniata al momento da documenti militari americani segreti, di cui sono noti alcuni stralci, che indicano l’area come sito di abbandono di bombe chimiche subito dopo le fine della Seconda Guerra Mondiale». Lo studio cita i “rapporti Brankowitz”, atti resi pubblici durante la presidenza Clinton e nuovamente secretati. Si tratta di un lungo elenco di spostamenti di armamenti chimici avvenuti dalla fine del conflitto fino agli anni Ottanta. «In un incartamento di 51 pagine del 30 gennaio 1989, sempre redatto a cura di Brankowitz, si legge che tra il 21 ottobre ed il 5 novembre, e tra il primo ed il 15 dicembre 1945, nel “Mar Mediterraneo, isola d’Ischia”, sono state affondate quantità non specificate di bombe contenenti fosgene, cloruro di cianuro (“cyanogen chloride”) e cianuro idrato (“hydrogen cyanide”)». Non è l’unico caso. In un documento del 2001 redatto a cura del Poligono americano di Aberdeen, invece, Legambiente denuncia sia stato tracciato l’affondamento di 13mila proiettili di mortaio carichi di iprite e 438 barili «nell’area di Napoli».
Sui nostri fondali ci sarebbero tracce anche di ordigni più recenti. Alcuni risalenti alla guerra del Kosovo. In assenza di certezze, il deputato democrat Capone chiede spiegazioni al governo. La sua interrogazione cita una mappa, diffusa qualche anno fa dalla Capitaneria di porto di Manfredonia, che evidenziava 11 diverse zone di sgancio di bombe inesplose nel basso Adriatico da parte dei caccia Nato. Mappa «non confermata, però a quanto si apprende, dal ministero della Difesa e dal Comando generale della Capitaneria di Porto». Il dossier di Legambiente cita lo stesso documento.«La mappa diffusa dalla Capitaneria di Porto di Molfetta durante il conflitto in Kosovo, parla chiaro: i caccia della Nato sganciarono ordigni inesplosi – probabilmente caricati con uranio impoverito – nel basso Adriatico in undici aree, due delle quali a 12 miglia dalla costa»

Ancora molti dubbi sulla bonifica del porto e di Torre Gavetone

Ospiti in studio di Video Italia Puglia, Rosalba Gadaleta, Ass. ambiente Comune di Molfetta, e Matteo d’Ingeo, portavoce Comitato Bonifica Molfetta, si confrontano sulla bonifica bellica marina di Torre Gavetone e porto. Intervengono fuori studio la responsabile scientifica del Comitato Bonifica, dott.ssa Maddalena De Virgilio e Pasquale Salvemini della L.A.C. Puglia. Gli interventi dei convenuti affrontano anche il problema dell’alga tossica e delle prospezioni nel mare Adriatico per le ricerche di pozzi petroliferi. Il Comitato Bonifica che aderisce al Coordinamento NoTRIV di Molfetta e Terra di Bari ha presentato le osservazioni contro i permessi di ricerca e trivellazioni in Adriatico della Global Petroleum e si appresta a presentare le controdeduzioni di quest’ultima. Conduce in studio Matteo Diamante.

Solo nel 2014 al largo del Montenegro sono state disattivate diverse centinaia di mine inesplose

di Luigi Maria Rossiello – italintermedia.globalist.it

Il problema dei residui bellici delle due guerre mondiali e dei recenti conflitti dei Balcani riguarda più o meno tutti i Paesi dell’area in questione.

Solo nel 2014 grazie all’attività dei sommozzatori degli artificieri della polizia sono stati resi inattivi centinaia di ordigni disseminati al largo della costa montenegrina. Le mine inesplose sono una pesante eredità con la quale devono confrontarsi molti Paesi di tutta Europa, ma tale fenomeno è ancor più accentuato proprio nei Balcani.

I sub hanno trovato oltre 600 mine anti-nave inesplose che sono poi state fatte brillare in sicurezza nelle baie di Kotor (in italiano Cattaro) e Tivat (Teodo).

Tale lavoro di sminamento prosegue da molti anni e accade spesso che vengano scoperte intere aree contaminate da residui bellici di cui prima non si aveva cognizione.

Il Centro del Montenegro per lo sminamento subacqueo, un dipartimento fortemente voluto dal ministero degli Interni, ha lavorato per anni al fine di rilevare potenziali oggetti esplosivi presenti in mare e procede poi alla bonifica d’intere aree.

In Montenegro le mine inesplose rappresentano una seria minaccia per attività come il turismo e la pesca.

Da quando il Centro è stato fondato nel 2002 sono stati bonificati circa 2 milioni di metri quadrati di acqua e circa 120 tonnellate di mine ed altri ordigni sono stati distrutti.

Nonostante il gran lavoro delle autorità preposte c’è ancora molto da fare. In diverse zone rimane elevata la presenza di mine, una seria minaccia alla sicurezza.

“Le attività svolte quest’anno (riferimento al 2014, ndr) – rivela il direttore del Centro Veselin Mijajlovic – sono state abbastanza pericolose, ma grazie all’esperienza e alla professionalità dei nostri sub siamo riusciti a completare l’azione di sminamento con successo e senza alcun incidente”.

Mijajlovic ha precisato come il Centro continuerà nel suo estenuante lavoro anche in questo 2015, in quanto ci sono ancora molte aree costiere che devono essere bonificate. Sono previste delle operazioni di monitoraggio anche al largo della città di Ulcinj, considerata sospetta per la probabile presenza di mine.

È, inoltre, doveroso precisare come ai sensi della Convenzione dell’Unesco sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, trattato che il Montenegro ha sottoscritto, le mine presenti sott’acqua da oltre un secolo non possono essere distrutte senza prima aver seguito un apposito iter burocratico, in quanto gli ordigni stessi vengono classificati come parte integrante del patrimonio culturale nazionale.

Estendendo poi il discorso agli altri Stati dei Balcani si nota come il problema relativo a mine e ad altri ordigni inesplosi sia comune a quasi tutti i Paesi dalla Slovenia all’Albania passando per Croazia, Serbia, Bosnia e Kosovo.

In queste aree i residui bellici oltre a riportare alla memoria i conflitti mondiali fanno riemergere un passato molto più recente. Le guerre degli anni ’90.

Proprio nel 2014, a causa delle pesanti inondazioni che hanno coinvolto molte aree rurali di tutta la penisola balcanica le mine disseminate sul territorio sono state spostate dalle acque e il lavoro svolto per delimitare intere aree è andato perduto. Sarà quindi necessario un nuovo lavoro di ricerca e analisi del territorio, anche con l’ausilio di nuove teconologie al fine di ridisegnare le mappe delle zone considerate rischiose.

Lo slittamento del terreno e il riaffiorare in superficie delle mine anti-uomo risalenti alla guerra del 1992-95 comporta, infatti, diversi problemi. Finora le mine erano mappate e indicate con dei segnali, ma lo smottamento del terreno potrebbe averle spostate, provocando molti rischi per gli abitanti di tutte le aree in questione.

L’alluvione ha così riportato alla memoria le conseguenze di una guerra dimenticata nel cuore dell’Europa, appena dall’altra parte dell’Adriatico.

 

La Croazia non lo sa: ordigni inesplosi nelle 10 aree concesse di fronte alle coste italiane

notriv-terradibari.blogspot.it

Qualche mese fa avevamo pubblicato il comunicato stampa di Comitato Bonifica Molfetta con una mappa degli Ordigni inesplosi nell’Adriatico Meridionale sulla quale erano state rappresentate anche le istanze di ricerca in mare d 80, d 81, d 82 e d 83 della Global Petroleum Limited.
Alla luce dell’annuncio del 2 gennaio 2015 del Ministero dell’Economia della Croazia in cui si comunica che il governo di Zagabria ha concesso 10 licenze per esplorazione e sfruttamento di idrocarburi in Adriatico, in seguito alla prima gara pubblica chiusasi il 2 novembre 2014, abbiamo deciso di riportare anche quelle prospicienti le coste pugliesi sulla stessa mappa.

È evidente che le concessioni nn. 25 e 26 della INA – Industrija Nafte dd ricadano in un’area segnalata da carte nautiche e da natanti come deposito di ordigni inesplosi; le prospezioni geofisiche che si vorrebbero condurre con tecniche Air-Gun (e simili), le future trivellazioni di pozzi provvisori e definitivi, probabilmente non sono mai state messe in correlazione con le migliaia di ordigni bellici affondati nelle sottozone di cui si chiede l’indagine e nelle altre zone confinanti.

Si presume, anche, che non siano stati valutati dalle società richiedenti i possibili effetti sinergici e cumulativi sugli ordigni bellici a caricamento chimico e convenzionale, sia delle onde sismiche prodotte dalle ispezioni con air-gun che dalle future perforazioni; e che non ci sia stata alcuna mappatura, prospezione e georeferenziazione degli ordigni inesplosi presenti in quella vastissima area sovrapposta o confinante, non solo con le zone d’indagine interessate alle odierne richieste, ma anche di altre.

Pertanto riteniamo urgente comunicare quanto rilevato alle autorità italiane e croate, affinché blocchino l’inizio delle esplorazioni e indagini fino a quando i rispettivi Ministeri della Difesa e organi militari non abbiamo verificato la pericolosità di una qualsiasi attività d’indagine per la presenza di ordigni bellici inesplosi in tutte le aree, e sottozone, interessate alla ricerca di idrocarburi. Lasciamo immaginare cosa accadrebbe se pur una sola bomba fosse casualmente incrociata da una trivella o dall’azione di un potente air-gun, e purtroppo non parliamo di una sola bomba ma di migliaia di bombe sparse a macchia di leopardo in tutto l’Adriatico.

Le offerte sono state ricevute da un totale di 6 aziende in 15 aree di ricerca. La commissione di esperti guidata dal Ministro dell’Economia Ivan Vrdolja ha valutato positivamente le offerte per 10 aree di esplorazione, che sono state concesse alle aziende Marathon Oil, OMV, ENI, Medoilgas e INA.

Il consorzio composto da Marathon Oil e OMV ha ricevuto il permesso per l’esplorazione e lo sfruttamento di idrocarburi in sette aree di ricerca: n. 8 nel Nord Adriatico, nn. 10, 11 e 23 nell’Adriatico Centrale, nn. 27 e 28 nell’Adriatico Meridionale. Il consorzio composto da ENI e MedOilGas ha ricevuto il permesso per l’esplorazione e lo sfruttamento di idrocarburi nella zona di ricerca n. 9 dell’Adriatico centrale, mentre alla croata INA – Industrija Nafte dd è stata concessa una licenza per l’esplorazione e lo sfruttamento di idrocarburi in due aree di esplorazione, la n. 25 e la n. 26 nell’Adriatico Meridionale”

Fonte: http://www.mingo.hr/page/pet-kompanija-izabrano-za-istrazivanje-10-istraznih-prostora-na-jadranu

Il terrore viene dal mare

di Roberto De Santo – www.corrieredellacalabria.it

Se non è ancora allarme, poco ci manca. Ma l’ipotesi che qualcosa nei fondali del Tirreno cosentino stia accadendo sembra sempre più prendere consistenza e forma. Nelle scorse settimane e per due pescate di seguito, al largo di Campora San Giovanni, alcuni pescatori locali hanno catturato quattordici esemplari di tonnetti “alletterati” (una delle specie di tonno più diffuse nel Mediterraneo, la peculiarità sta nella colorazione azzurro-bluastra sul dorso), tutti con una malformazione alla colonna vertebrale. A destare preoccupazione, soprattutto, la circostanza della ripetitività delle catture nella stessa zona. I pescatori amatoriali, infatti, allarmati dalla strana conformazione dei primi 12 tonnetti catturati, sono ritornati nei pressi dello specchio d’acqua – nei pressi del porto della popolosa frazione di Amantea – dove avevano abboccato i pesci e lì ne hanno raccolto altri due trovandoli anch’essi con la stessa anomalia.
Una vicenda che si tinge decisamente di nero alla luce di un’altra storia simile segnalata dal Corriere della Calabria lo scorso anno, quando a settembre del 2013 altri pescatori amatoriali catturarono – non lontano dalla costa di Fiumefreddo Bruzio e dunque a pochi chilometri di distanza da Campora – altri esemplari sempre della stessa specie e con l’identica malformazione scheletrica: la spina dorsale bifida. In quell’occasione un laboratorio privato, su incarico del biologo marino Silvio Greco, svolse delle approfondite analisi sui campioni di lisca di due dei quattro pesci catturati con questa anomalia (nel corso della battuta erano stati presi dieci esemplari) ed emerse un aspetto decisamente inquietante: i resti degli animali esaminati erano contaminati da metalli pesanti e da Idrocarburi policiclici aromatici (Ipa). Proprio quest’ultima sostanza – ritenuta pericolosi per gli effetti sulla salute dell’uomo – presentava un valore più alto della norma. Non solo, sempre da quelle analisi – realizzate per conto di Greco – uscì fuori che nelle lische dei tonnetti erano presenti parametri al di sopra della norma di tre policlorobifenili (Pcb). Composti organici considerati altamente nocivi per gli esseri umani visto che alcuni studi scientifici ne delineano l’elevato nesso di causalità con la contrazione di malattie tumorali.Tutti aspetti che alla luce delle identiche anomalie anatomiche che presentano gli esemplari catturati a Campora fanno ritenere plausibile che anche questi siano tonnetti contaminati dalle stesse sostanze chimiche. Un’ipotesi che – se dovesse essere supportata da dettagliate analisi sui pesci catturati a largo delle coste amanteane – solleverebbe con maggiore insistenza l’allarme di una possibile contaminazione lungo il Tirreno cosentino. Soprattutto alla luce che i pesci pescati sia nel caso di Fiumefreddo sia di Campora San Giovanni sarebbero nati nella zona: la lunghezza non supererebbe, infatti, i trenta centimetri. Anche se c’è da sottolineare che i tonnetti catturati appartengono a una specie pelagica, capace cioè di percorrere centinaia di chilometri e che nella baia di Augusta, nel corso degli anni, sono stati segnalati diversi casi di pesci deformi. Un’aspetto che potrebbe lasciare intendere che da lì possano essere arrivati almeno i progenitori dei pesci catturati al largo delle coste del Tirreno cosentino. Ciononostante restano alcuni elementi inquietanti: la concomitanza delle catture nella stessa zona, la ripetitività almeno negli ultimi due anni e la giovane età degli esemplari. Circostanze, queste, che lasciano completamente aperta l’ipotesi dell’esistenza di un focolaio di contaminazione proprio in territorio calabro.

L’ANALISI DELL’ESPERTO
«È evidente che a questo punto c’è qualcosa di sospetto e che, per questo, meriti tutti gli approfondimenti del caso». Il biologo marino Silvio Greco alza il livello d’attenzione sulla vicenda degli esemplari malformati. Soprattutto dopo le nuove catture di tonnetti al largo di Campora San Giovanni che presentano la spina dorsale bifida. « La letteratura scientifica – spiega Greco – è concorde nell’affermare che questo genere di mutazione è dovuta alla contaminazione da metalli pesanti e da idrocarburi. Resta da comprendere dove sia collocata la fonte d’inquinamento e a cosa sia dovuta». Per questo il noto biologo marino invoca «la costituzione di un gruppo di esperti per capire con esattezza l’ampiezza e l’origine del fenomeno». Per fare questo senza dubbio dovranno per primi intervenire i tecnici dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente calabrese. «Un primo step – sostiene Greco – per avviare un monitoraggio più ampio e più complesso con il coinvolgimento auspicabile di altri specialisti del settore».

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Chemical city, guai a inalare quei fumi…

di Daniele Camilli – www.tusciaweb.eu

Finita la guerra, della Chemical City non si seppe più niente fino al gennaio del 1996 quando una “nuvoletta” sfuggì al controllo nel corso dell’operazione “Coscienza pulita” investendo in pieno un ciclista che stava passando proprio da quelle parti mandandolo dritto dritto in ospedale.

Lago di Vico – “Passavamo accanto a magazzini aperti, senza porte. Dentro c’erano fusti in orizzontale sopra ad assi di ferro. E’ da quei fusti che usciva un materiale visibile anche di notte, che da terra evaporava. Dovevamo stare attenti a non inalarlo…”.

Andrea, nome di fantasia per garantirgli l’anonimato, ha fatto il militare di leva, tra il ’92 e il ’93, nella Chemical City del lago di Vico. La zona militare voluta dal fascismo nella seconda metà degli anni ’30 per produrre iprite, fosgene e altre armi chimiche per sterminare il nemico.

Durante la prima bonifica della zona militare del lago di Vico – a breve ne seguirà un’altra – vennero trovate “almeno 150 tonnellate di iprite del tipo più micidiale, mescolata con arsenico.

“In più – evidenzia Di Feo nel libro Veleni di Stato – c’erano oltre mille tonnellate di admsite, un gas potentissimo ma non letale usato contro le dimostrazioni di piazza. E oltre 40 mila proiettili di tutti i calibri”.

Dal terreno sono poi sbucate “60 cisterne di fosgene assassino, ciascuna lunga quattro metri; tutte in pessime condizioni, con evidenti lesioni e tracce di ruggine”.

Molto si è scritto sulla Chemical City e molto è stato fatto grazie alla collaborazione tra associazioni, Legambiente, istituzioni e militari per disinnescare definitivamente una bomba chimica situata a poche decine di metri dal lago di Vico e al confine con una delle più importanti riserve naturali della regione Lazio. Poco si sa della vita quotidiana all’interno della zona militare prima dell’incidente del ’96. Ora sembra aprirsi uno spiraglio.

Quali erano i vostri incarichi all’interno della zona militare del Lago di Vico?
“Facevamo dei pattugliamenti, giorno e notte. Svolgevamo un servizio di guardia armata con la possibilità di sparare a vista e dovevamo stare molto attenti ai giornalisti. Il pattugliamento consisteva in un percorso, che effettuavamo prevalentemente di notte. Passavamo accanto a dei magazzini privi di porte. Erano completamente aperti. E al loro interno c’erano dei fusti messi in orizzontale sopra delle assi di ferro che li tenevano alzati da terra. E dai fusti usciva del materiale visibile anche di notte. Il materiale che usciva formava poi dei ruscelletti che si infiltravano nel terreno. Inoltre, dai ruscelletti veniva su anche del fumo. Come se quel materiale stesse evaporando. E dovevamo stare molto attenti a non inalare questi fumi”.

Erano previste delle protezioni per i soldati di pattuglia?
“Sì. Avevamo delle maschere antigas. Però non le indossavamo mai. Quando passavamo davanti ai magazzini che contenevano i fusti… trattenevamo il fiato”.

Quale era la distanza tra voi e i magazzini?
“Circa una ventina di metri”.

Perché non indossavate le maschere antigas?
“Perché eravamo giovani e ingenui. Ovviamente il maresciallo ci diceva di indossarle, soprattutto se vedevamo fuoriuscire del fumo”.

Sapeva che i fusti contenevano sostanze chimiche?
“No. Ne eravamo completamente all’oscuro. Tant’è vero che il nome Chemical City l’abbiamo scoperto dopo. Noi la chiamavamo la “Polveriera”. L’unica cosa che ci avevano detto era che dovevamo fare i pattugliamenti”.

Quanti fusti ci saranno stati?
“Non ricordo bene, probabilmente oltre cento a magazzino”.

Come si strutturava la zona militare del Lago di Vico?
“C’era una casa a due piani, dove si trovava il reparto e da dove partivamo per i pattugliamenti. Al pian terreno si mangiava e al primo piano si trovavano i dormitori. Lì sotto c’era una garitta che puntava direttamente verso il cancello. Quando eravamo di pattuglia si passava in mezzo al bosco dove si trovava un sentiero che si avvicinava sempre di più ai magazzini. Saranno stati in tutti 5 capannoni, gli ultimi due pieni di maschere antigas e casse chiuse. Dopodiché c’era una villetta. Lì era vietato arrivare. L’ordine era di passare ad almeno 200 metri di distanza perché – ci dicevano – potevamo entrare a contatto con delle radiazioni. Subito dopo si scendeva a valle e il percorso ‘costeggiava’ il lago fino a ritornare al punto di partenza”.

Quanti eravate all’interno della zona militare?
“Se non sbaglio, eravamo in tutto dalle 12 alle 14 persone. C’erano anche delle guardie giurate”.

Da quante persone era composta la pattuglia?
“Due persone che si alternavano con altre due ogni tre ore”.

Ci sono mai state delle persone che sono svenute?
“Uno di noi si è sentito male. Anche io ho avuto dei giramenti di testa. Ma nessuno di noi ha ricollegato il malore alla fuoriuscita di materiale dai fusti”.

Lei si è mai avvicinato ai fusti?
“Sì, una volta l’ho fatto. Trattenendo il respiro. Il fusto era lacerato e usciva del materiale”.

Daniele Camilli

I nostri pescatori continuano a pescare casse di ordigni invece che pesce

Non è la prima volta e non sarà l’ultima che i pescatori della nostra marineria pescano casse di ordigni fumanti. Quest’ultimo ritrovamento avvenuto (forse a 5 miglia dalla costa) qualche giorno fa, deve farci riflettere sul pericolo che corrono quotidianamente i nostri pescatori durante le loro battute di pesca.

 

 

“Allarme fosforo per il mare Adriatico”, sommozzatori scandagliano i fondali

di Pasquale Bergamaschi – www.ilrestodelcarlino.it

Ascoli, 29 novembre 2014 – Lo strano caso, ovvero fumo e fiamme che prendono corpo dalle reti appena tirate a bordo dall’equipaggio del motopeschereccio ‘Marpesca’ di Termoli, dell’armatore Giacomo Cannarsa, in pesca a 5 / 6 miglia all’altezza di Cupramarittima, potrebbe avere una più che concreta giustificazione.

La sostanza gelatinosa, sembra a base di fosforo, che il comandante della ‘Marpesca’ ha raccolto in due barattoli poi consegnati al comandante della Capitaneria di Porto di San Benedetto, Sergio Lo Presti, per gli esami di rito, potrebbe essere il contenuto delle ‘bombe a grappoli’ che gli aerei americani sganciavano in Adriatico al termine delle missioni nei Balcani, ai tempi della guerra fratricida dei popoli dell’ex Jugoslavia.

«Come si leggeva a quei tempi, cioè nel 1999 – dice il comandante Pietro Merlini – queste bombe a grappoli di colore giallo contenevano sostanze infiammabili e dovevano essere scaricate prima che gli aerei americani tornassero alla base. Ricordo che proprio in quel periodo un’imbarcazione di Rimini, se non sbaglio ‘Il Profeta’, incappò nel contenuto di queste bombe e prese fuoco in coperta, come è successo al ‘Marpesca’».

Chiedendo ad altri comandanti della flottiglia peschereccia sambenedettese, comunque mai incappata in questi imprevisti post–bellici, la risposta è identica. Afferma Franco Cameli: «A me non è mai accaduto, però l’unico legame potrebbe essere quello della sfortunata pesca, invece del pesce la sostanza gelatinosa infiammabile». Stessa dichiarazione del collega Umberto Cosignani che però aggiunge a sostegno di quanto detto dal comandante Merlini.

«Nel 1999, durante la guerra nei Balcani, gli aerei americani smaltivano in Adriatico le ‘bombe a grappoli’ incendiarie, tant’è che nell’anno successivo, come armatori – pescatori delle marinerie dell’Adriatico, fummo costretti a 3 mesi di fermo pesca: 1 mese e mezzo giustificato dal riposo biologico e l’altro mese e mezzo, dal fermo bellico, il tempo che servì a bonificare l’Adriatico dalle bombe infiammabili».

Stando ai fatti, non tutte sono state ‘ripescate’ e di qui l’ipotesi che potrebbe calzare a pennello al caso del ‘Marpesca’: nelle sue reti è finito una specie di barattolo con materiale infiammabile, sicuramente con larga percentuale di fosforo. Un imprevisto che non ha comportato gravi danni alle cose e alle persone dell’equipaggio del ‘Marpesca’, come invece è accaduto tanti anni fa, subito dopo la II guerra mondiale, ai motopescherecci saltati in aria per aver pescato degli ordigni bellici. «Accade ancora – dicono alcuni pescatori – ma le bombre che entrano nelle reti le buttiamo nelle zone dove non si pesca, altrimenti, per le varie questioni burocratiche si rischia di stare fermi un mese circa».

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